giovedì 19 maggio 2011

La scuola è…


Fabrizio Festa

“La scuola è il mio poema tangibile”. Così scriveva Rabindranath Tagore, per il quale poesia e didattica erano momenti inseparabili della sua attività di artista e intellettuale. Sono parole che non possono lasciarci indifferenti. La poesia, infatti, è a un tempo la più esplicita e la più intima espressione dell’essere umano. Nella scuola, non importa di quale ordine e grado, trova perciò la sua naturale collocazione. E’ un modo, sempre citando un’altra felice metafora del poeta bengalese, per bussare alle menti dei ragazzi e lasciare che siano loro stessi ad aprire quelle porte. E’ soprattutto lo strumento più naturale per trasferire il sapere: sono le emozioni a veicolarlo, generando così sentimenti che spesso durano per la vita intera. E persino al di là della vita di ciascuno di noi, diventando storia. Questo straordinario processo di osmosi culturale da sempre avviene in due luoghi sostanzialmente affini: scuole e teatri, che sono i luoghi dove gli uomini imparano a vedere e ad ascoltare. I luoghi ove si rappresenta il mondo. I luoghi ove il mondo cambia nell’incontro di generazioni diverse. I luoghi dove appunto si può toccare la poesia. Sebbene siano luoghi affini, questo non implica che il loro legame culturale non possa essere spezzato. Sta a noi scegliere. Possiamo decidere d’interrompere ogni connessione tra scuole e teatri. Si possono chiudere questi ultimi e ridurre le prime a edifici fatiscenti, in cui studenti e professori debbono combattere per veder riconosciuto un diritto elementare: quello all’istruzione. All’istruzione pubblica, quella che include tutti perché l’istruzione è un diritto inalienabile di ciascuno essere umano. Possiamo al contrario decidere di consolidare, migliorare, rendere sempre più fluidi i collegamenti tra scuole e teatri. Dobbiamo decidere, in altre parole, se le nostre risorse vadano investite in un futuro dove il sapere sia a servizio di tutti, oppure di pochi.

domenica 8 maggio 2011

Crisi d’identità


Coloro che, come chi scrive, sono arrivati a Bologna negli anni Settanta di un secolo che ormai è trascorso, non possono non essere stati colpiti dalla scelta di indicare per la carica di sindaco un rappresentante della Lega Nord. Forse anche feriti, perché scegliere di studiare, per poi restare a Bologna allora, come negli anni che seguirono, era prima tutto una scelta culturale, che prescindeva da qualsiasi considerazione connessa alle effettive possibilità di trovare, ad esempio, un lavoro. A Bologna lo studente universitario di quegli anni si sentiva a casa sua. Viveva cioè in una comunità, che aveva fatto dell’integrazione la sua forza. Un’integrazione peraltro realizzata su più dimensioni, non limitata cioè a settori specifici della popolazione (per esempio gli studenti), ma che invece si estendeva trasversalmente, unendo persino le differenti generazioni. Una forma di sodale accoglienza vissuta in totale spontaneità.
Che oggi si possa solo pensare di portare a Palazzo d’Accursio chi ha fatto della “dis-integrazione” il suo credo politico provoca quantomeno sconcerto. Del resto, quando la destra in questo nostro paese accusa la sinistra di aver egemonizzato la “cultura” inconsapevolmente ammette la sua più cocente sconfitta: non essere stata capace di creare, caduto il fascismo, di cui si ammirano ancora oggi in maniera neppure troppo velata gli atteggiamenti, riproducendone vezzi e vizi, una propria solida cultura. Tant’è che si affida alle improvvisazioni dei Berlusconi e dei Tremonti, per non dire del ministro Gelmini, figure che con la cultura, questa sì solida e radicata, della destra liberala europea nulla hanno a che vedere. Oppure alle volgarità pseudo dialettali del “padano” di turno. O a quella gestualità rozza e scomposta, che è il segno della sua stessa fragilità. Forse, bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che in questo paese una destra vera non c’è, altrimenti un candidato sindaco per Bologna sarebbe riuscito ad esprimerlo.

venerdì 6 maggio 2011

Non di solo pane.



Il merito principale di questa campagna elettorale è stato probabilmente quello di aver riportato al centro dell’attenzione un tema che, fino a ieri, era stato meno che marginale nel contesto del dibattito politico nazionale: quello della cultura. Negli ultimi mesi molte sono state le occasioni di pubblico confronto su questioni che – dagli asili nido al welfare, dalla scuola all’università, dalla ricerca ai teatri – strategicamente erano state impoverite dei loro effettivi contenuti, e ridotte a una contabilità, che dietro ai numeri (peraltro usati in maniera impropria, spesso priva di qualsiasi riferimento agli effettivi ordini di grandezza e al più generale ambito della spesa pubblica complessiva) celava le sue vere ragioni. Fare del nostro un paese a democrazia ridotta. Questa, infatti, la scelta culturale del governo. Una scelta che non a caso si riflette in quegli indirizzi di politica economica e finanziaria, che impediscono all’Italia di tornare a guardare al futuro, inchiodandola ad un difficile presente. Distruggere il sistema culturale pubblico, quel sistema che articola istruzione e sapere, dando la possibilità a tutti i cittadini senza distinzione di censo, di razza, di genere, di accedere a quanto arti e scienze producono, significa ridurre le opportunità di ciascuno di noi di esercitare al meglio il suo diritto e al tempo stesso di comprendere appieno il valore e la funzione dei suoi doveri. In altre parole, significa minare il fondamento stesso della convivenza civile. Che Bologna ne abbia sofferto più di altre città italiane è un segnale che dice molto della storia della nostra civitas. Bologna è stata, è e dovrebbe continuare a essere quella città in cui la qualità della vita, che è l’esito concreto delle scelte culturali compiute da chi amministra, è il centro dell’azione politica. Di conseguenza, proprio l’aver puntato i riflettori sui temi della cultura ha evidenziato quelle differenze, che, marcando la distanza tra i diversi candidati, obbligheranno i cittadini a fare una scelta non solo su questioni minime, di mera gestione del quotidiano, ma tra diverse visioni del mondo: il mondo che vogliamo ora e che vorremmo per le generazioni a venire. Dovremo scegliere tra un mondo in cui siano chiari diritti e doveri stabiliti da una carta costituzionale condivisa, oppure un mondo dove domini la legge del più furbo. Tra un mondo solidale e inclusivo, un mondo in cui si sappiano riconoscere anche nel pane i segni della storia, dell’arte e della scienza, e uno che fa del razzismo la sua bandiera, un mondo nel quale non ci si vergognerebbe di negare quel medesimo pane a chi ne avesse bisogno.